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Designers for Bergamo Un tributo alla città attraverso immagini e interviste ai grandi protagonisti di DimoreDesign

Puntata 26

MATTEO BAZZICALUPO E RAFFAELLA MANGIAROTTI DEEPDESIGN - INCONTRANO PALAZZO TERZI

Matteo Bazzicalupo e Raffaella Mangiarotti DEEPDESIGN

i nostri prodotti sono espressione della fusione di due sensibilità diverse ma collaborative, rivelano il femminile ed il maschile che sono entrambi in ognuno noi indipendentemente dalla nostra appartenenza di genere

Intervista a cura di Giacinto Di Pietrantonio

Giacinto Di Pietrantonio: Cosa facevate prima di iniziare a lavorare insieme come deepdesign?

Matteo Bazzicalupo: Studiavamo architettura al Politecnico di Milano ma lì non ci siamo mai incontrati. Studi e vite parallele fino alla tesi. Ci siamo incontrati subito dopo alla redazione di Modo diretta da Almerico De Angelis.

G.D.P.: Ma prima di arrivare a Modo?

M.B.: Come detto, studiavamo al Politecnico architettura con indirizzo industrial design, dove ci siamo laureati, io con Trabucco e Raffaella con Maldonado.

Raffaella Mangiarotti: Feci la tesi con Maldonado, un grande teorico, un intellettuale vero, educatore, artista. Aveva lavorato alla Scuola di Ulm (ndr) e le persone che io studiavo sui libri di architettura e design lui le aveva conosciute e ci aveva lavorato. Fare la tesi con lui è stato il primo obiettivo chiaro. Alla fine, siccome dovevo fare anche una parte di progettazione pratica, l’argomento era un vagone letto a due piani, Maldonado mi disse: “Vada a fare una revisione con un professore di progetto” e fu così che andai da Ubertazzi e Trabucco.

G.D.P.: E anche lì non vi incontraste?

M.B.: No, io facevo una tesi sul papà dell’elicottero, un velivolo chiamato “autogiro” riprogettandolo con materiali compositi come fibra di carbonio, kevlar, ecc.

G.D.P.: Entrambi una tesi su mezzi di trasporto e fuori dall’idea che si ha del design come progettisti di oggetti.

M.B.: Quando andai da Trabucco per decidere il tema della tesi c’era un ingegnere italiano che lavorava alla NASA e Trabucco gli disse: “Cosa facciamo fare a Matteo come tesi?” E lui rispose: “Perché non proviamo a fargli fare una tesi sull’autogiro?” Naturalmente, né io, né Trabucco sapevamo cosa fosse l’autogiro.

R.M.: Io ero affascinata dalla progettazione degli spazi minimi e la cuccetta del treno lo è. È uno spazio più piccolo di una camera d’albergo. Mi ero appassionata all’idea dei treni doppi su due piani nei quali si potevano creare delle cuccette che non erano più dei letti a castello scomodi, ma due piccole camere sfalsate. Mi appassionava l’idea di comfort. Ho studiato quindi come rendere molto piacevole il design della cabina, sia di notte che di giorno. Il letto ribaltava e invece di avere il solito divano c’erano due belle poltrone con un tavolino in mezzo. Mi sembrava più comodo ed elegante.

G.D.P.: Domanda magari inutile: come andò? Ovviamente 110 e lode?

R.M.: Si, 110 e lode.

G.D.P.: Anche tu 110 e lode Matteo?

M.B.: Sì, ricordo ancora con piacere che il titolo della tesi, "Girando e volando che male ti fò", ed il modello del velivolo incuriosirono Maldonado, Presidente della commissione, che continuava a far ruotare a mano ironicamente il rotore sulle teste nostre e della commissione…

G.D.P.: Venendo al poi… Notiamo che nessuno dei due ha progettato mezzi di trasporto, tuttavia mi interessa sapere cosa di questa esperienza è rimasta nella progettazione degli oggetti successivi.

M.B.: Sicuramente siamo amanti dei dettagli e dei particolari. Partiamo certamente da un’idea ma poi ci muoviamo verso la finalizzazione del progetto a livello di fattibilità. Siamo appassionati dalla tecnica che è importante conoscere, ma senza fanatismo. La tecnologia ci incuriosisce, ma l’aspetto più importante per noi è l’approccio umanista al progetto, capire come disegnare prodotti che abbiano un’empatia forte con chi poi li utilizzerà.

G.D.P.: Infatti definite il vostro lavoro come organicista naturalista?

R.M.: Osserviamo molto la natura. Quello che avviene in natura in termini di energia e performance è qualcosa di impareggiabile. Nulla è sprecato o ridondante e quindi questa è per noi una forma espressiva interessante verso cui tendere.

G.D.P.: Dalla teoria torniamo a dati concreti di vita. Vi incontrate durante la tesi e poi che avviene?

M.B.: Come accennato non ci siamo incontrati in quell’occasione, ma subito dopo quando Almerico ci chiamò a lavorare alla redazione di Modo. Era un ambiente vivace e stimolante. Lì abbiamo conosciuto Giorgio Tartaro, Silvana Annicchiarico e altri colleghi che poi sono rimasti amici e con cui continuiamo a confrontarci. Era un ambiente fresco e vivace. In quel periodo eravamo gli unici architetti progettisti, insieme a Roberto Palomba, gli altri erano per lo più teorici, critici, storici, curatori.

G.D.P.: Quindi un giorno in redazione. Nella pausa caffè avete detto: “ma perché non ci mettiamo insieme professionalmente?”

M.B.: Più o meno. Abbiamo iniziato a fare dei concorsi insieme prevalentemente legati all’arredo. Avevamo partecipato ad esempio al Wood Of Finland Competition con una seduta ad assetto variabile, tutta in legno curvato, senza meccanismi, che si basava esclusivamente sull’equilibrio del corpo. Poi altri concorsi, qualcuno, come Esaedro o Young and Design, che abbiamo anche vinto, ed allora abbiamo pensato che potesse essere l’inizio di una storia professionale. Ne facemmo anche individualmente, Raffaella quello del Cosmopack per il packaging di prodotti cosmetici ed io una seduta ultraleggera in fibra di carbonio per Cesvitec all’Università Federico II di Napoli, dove ebbi il grande piacere di conoscere Ermanno Guida che in seguito mi presentò ad Almerico.

G.D.P.: Per cui fare concorsi non è solo progettare prodotti, ma anche se stessi?

R.M.: In un certo senso sì, perché facendo concorsi abbiamo preso coraggio ed iniziato a cercare le aziende a cui proporre le nostre idee. Poi sono arrivate le commissioni tutte legate all’innovazione che è la cosa che a noi piace di più e che hanno originato brevetti, di utilità, d’invenzione, ecc.

G.D.P.: Come l’aspirapolvere e l’asciugacapelli a braccio pieghevole?

M.B.: Esatto, abbiamo fondamentalmente due modi di lavorare. Uno è l’auto committenza. Quando crediamo in un’idea innovativa, come per l’asciugacapelli, la brevettiamo e la sviluppiamo e fino allo stadio di preproduzione arrivando ad un prototipo funzionante. Senza committente e senza aziende di riferimento. L’azienda la cerchiamo dopo. Poi invece lavoriamo più tradizionalmente come designer sia su progetti molto evoluti, per esempio sullo studio di scenari evolutivi dei prodotti a 10 o 20 anni commissionati generalmente da grandi aziende - come Whirlpool e DaimlerChrysler - o lo studio di progetti per il dopodomani ovvero per un lancio sul mercato previsto generalmente entro un bi o triennio.

G.D.P.: Qual è la percentuale di auto commissione e commissione nel vostro lavoro?

R.M.: All’inizio era molto auto commissione, poi il rapporto si è invertito. In questo momento ci viene più chiesto di progettare prodotti da lanciare rapidamente. Ci manca un po' l’autoproduzione in cui ci sentiamo più liberi di ricercare e sperimentare. Negli ultimi anni abbiamo creato anche dei nostri spazi di ricerca e lavoro personali, dando spazio anche alle nostre espressioni individuali. E questo è ancora un altro percorso.

G.D.P.: In realtà anche sui prodotti commissionati continuate a sperimentare molto?

M.B.: Certamente, dedichiamo in ogni caso molto tempo alla ricerca e sviluppo. Poi la nostra fortuna e convinzione è stata quella di non volerci specializzare in un settore e quindi ogni volta impariamo tanto da diversi ambiti e dal trasferire le conoscenze da un settore all’altro.

G.D.P.: Difatti nel vostro sito ho visto che dividete i vostri prodotti in: products, furniture, research, electric, light.

R.M.: Quella del sito è comunque una selezione, spaziamo ancor di più. Abbiamo progettato davvero tanto, dai telefoni cellulari agli assorbenti femminili. E così abbiamo esplorato ed imparato molto dal confronto con le aziende ed il loro indotto.

G.D.P.: Tutti entrati in produzione?

M.B.: Molte cose sì, altre erano solo dichiaratamente concept di prodotti. Le multinazionali investono molto sulla fase zero di ricerca, sviluppo e concettualizzazione, ma come spesso accade in questi casi, come per i 30 tipi di cellulari per la NEC, sono magari andate in produzione solo alcune parti del cellulare. In altri casi, come per SMEG quasi tutto ciò che disegniamo va in produzione.

G.D.P.: A proposito di quest’ultima avete lavorato molto da una parte a disegnare una linea di piccoli elettrodomestici andati con successo in produzione, ma più avanti sono stati coinvolti i Dolce&Gabbana a “decorarne” una serie?

R.M.: La SMEG non aveva mai prodotto piccoli elettrodomestici, ha iniziato con noi. Nel 2014 è stata lanciata la prima famiglia di piccoli. Una sfida molto interessante per noi e loro. Prodotti, che abbiamo seguito in tutte le fasi, dal disegno allo sviluppo, alla supervisione dell’engineering e della industrializzazione che abbiamo seguito nei minimi dettagli con varie trasferte nei diversi siti produttivi. Successivamente il nostro design è stato rivisitato da Dolce&Gabbana, con le loro decorazioni classiche siciliane. Una sfida anche questa interessante, perché dopo i prototipi con i decori dipinti a mano da decoratori dei carretti siciliani bisognava capire come riprodurli industrialmente con la stessa qualità cromatica e di dettaglio. Noi abbiamo collaborato anche in questa fase per individuare la tecnologia e la definizione del metodo industriale. Spesso le innovazioni sono anche di processo. Sempre per la SMEG abbiamo progettato oltre alla showroom di Milano quella di Regent Street a Londra di 600 mq a 100 metri da Piccadilly Circus.

G.D.P.: Quale l’idea guida?

R.M.: Abbiamo definito e proposto alla proprietà di sviluppare un concept dove fossero evidenti i valori di calore e accoglienza. È stata importante sia la scelta distributiva degli spazi che la selezione di materiali impiegati, presi nella nostra cultura architettonica come il legno, il travertino, il vetro e il verde. Abbiamo voluto molto verde, sia a Milano che a Londra abbiamo realizzato pareti verticali alte 8-9 metri.

Abbiamo lavorato per creare un ambiente pacato, elegante, naturale.

Uno degli impegni più rilevanti è stato anche quello di dosare gli oggetti all’interno degli spazi dato che SMEG ha tanti prodotti e il tema era come mostrarli senza che le showroom sembrassero eccessivamente commerciali…

G.D.P.: Come lavorate, qual è il vostro metodo? Silvana Annicchiarico ha parlato di “razionalità cooperativa”.

M.B.: Nel momento in cui un’azienda ci commissiona un prodotto partecipiamo anche ai brainstorming aziendali, nel migliore dei casi partecipiamo alla definizione del brief. La nostra fortuna è che nessuno dei due, Raffaella ed io, abbiamo come obiettivo quello di voler imporre all’altro il proprio punto di vista e questo ci ha naturalmente aiutato perché i progetti crescono più velocemente ed ognuno mette il meglio di sé.

I progetti crescono per stratificazioni una volta individuata un’idea forte.

Questa è una cosa abbastanza unica e rara, perché lavoriamo insieme da 25 anni ed

i nostri prodotti sono espressione della fusione di due sensibilità diverse ma collaborative, rivelano il femminile ed il maschile che sono entrambi in ognuno noi indipendentemente dalla nostra appartenenza di genere.

G.D.P.: Siete stati anche in Cina per seguire lo sviluppo di vostri progetti?

M.B: Si certo diverse volte, soprattutto per la fase di supervisione stilistica dell’ingegnerizzazione ed è stato sempre molto intenso, interessante ed impegnativo. Abbiamo tuttavia la fortuna di avere anche un approccio molto tecnico al progetto, pur non essendo ingegneri, molto spesso ci siamo trovati in tavole rotonde in Cina con molti ingegneri che cercavano di proporre le soluzioni più semplici dal punto di vista economico/produttivo che però andavano a modificare e stravolgere il progetto. In quei casi bisogna mantenere fermi i principi guida del progetto e piano piano convincerli che certe cose si possono comunque fare. Ci piace l’idea che l’ingegneria possa divenire anch’essa creativa quando incontra il design.

G D.P.: Quali sono le differenze tra lavorare con colossi multinazionali e con le piccole aziende e anche la differenza tra il lavorare con aziende italiane e quelle estere?

R.M.: Noi cerchiamo di lavorare sempre innovando, indipendentemente che siano grandi o piccole aziende. Generalmente però le grandi aziende hanno risorse tali che ti possono chiedere anche di sviluppare solo ricerca pura, quindi idee di prodotto che non hanno come obiettivo di andare in produzione, ma di dare una direzione possibile per far ragionare in modo diverso. Quando le aziende sono troppo grandi e strutturate a volte vanno avanti con un’innovazione più progressiva e meno disruptive. È più facile che un pensiero laterale venga da un designer esterno meno specializzato, proprio perché non sapendo tutto, si fa meno problemi a cambiare le cose.

Ad esempio, ricordiamo con piacere quando siamo stati selezionati da Richard Eisermann - allora capo del design di Whirlpool Europe - per ripensare ex novo al mondo del lavaggio. Abbiamo concepito un nuovo processo di lavaggio (a forza centripeta e non centrifuga, esattamente come lavano le mani) e disegnato Pulse. Fu entusiasmante nel 2003 ricevere un ID Award per la ricerca, a pari merito, con Ideo. Loro - che per noi erano un mito - erano tanti, noi all’epoca eravamo solo in due.

È interessante essere completamente liberi di ripensare ex novo il ciclo di lavaggio.

Così abbiamo deciso di basarci sul lavaggio a mano. È il metodo in realtà più qualitativo e performante che esista, perché quello meccanico non ha cura delle fibre, le sfibra nel tempo lanciando i tessuti contro un cestello in acciaio. Lo abbiamo fatto anche con la DaimlerChrysler per progettare un set di accessori per una concept car sportiva, la GST. Con la lampada Dandelion abbiamo applicato in modo decorativo i led in un momento in cui erano ancora rifiutati dalla industria dell’illuminazione. Così trovammo una piccola azienda e realizzammo una delle prime lampade a led con approccio decorativo. Anche per questo motivo è stata acquisita nel 2008 dalla collezione permanente del MoMA di New York.

Dunque non è tanto importante se si lavora con una grande o piccola azienda, ma avere dedizione e tenacia.

G.D.P.: Ritornando alla partenza, i professori con cui avete studiato sono molto legati alla modernità, soprattutto Maldonado, razionalista ad oltranza che non lascia nulla al caso, mentre negli ultimi trent’anni il caso, l’errore sono entrati in maniera preponderante nel progetto. Voi tenete conto di questo cambiamento?

M.B.: Siccome siamo amanti della sperimentazione essa contempla l’errore il caso, il pensiero laterale tutti ingredienti che appartengono alla ricetta generativa dei nostri progetti, essi ci consentono di individuare soluzioni innovative a problemi quotidiani.

Ovviamente l’errore ed il caso non sono più contemplabili nelle fasi successive di sviluppo del progetto, nelle quali, anzi, serve molta precisione e cura del dettaglio, perché insieme all’idea iniziale contribuiscono a fare la differenza nei prodotti.

G.D.P.: Cos’è per voi oggi il design?

R.M.: Credo che oggi design abbia un significato molto diverso dal momento in cui abbiamo cominciato. Oggi un po' tutto è design e se cominciassimo adesso forse bisognerebbe occuparsi del design dei servizi, per le città, per il sociale.

Continuiamo a disegnare sedie e tavoli e ci piace ma in realtà sono tutti gli altri gli ambiti più nuovi.

Siamo sommersi da merci che stanno creando problemi ambientali e di smaltimento. Non sappiamo più dove mettere le cose.

Dovremmo fare meno e meglio, ma rimane teorico.

Gli oggetti di design in realtà si sono moltiplicati negli ultimi anni: i prodotti delle aziende, le autoproduzioni dei designer, le produzioni particolari delle gallerie e dei nuovi negozi.

Forse bisognerebbe essere più biodegradabili, disegnare prodotti a scadenza, che si estinguano. In tal senso ci affascinano le nuove plastiche più sostenibili sia per come vengono prodotte che per come si dematerializzano.

G.D.P.: Direi che con il vostro modo di progettare cercate di tenere insieme i dogmi della modernità e postmodernità: la forma segue la funzione e la forma segue la comunicazione?

R.M.: Sì con un approccio umanista al progetto non che tiene conto della performance tecnica ma della relazione con chi usa il prodotto. L’interazione è fondamentale e deve avere grazia, semplicità e piacevolezza.

G.D.P.: Quando vi viene commissionato un prodotto vi viene dato anche un budget entro cui questo deve collocarsi?

M.B.: Non sempre, ma quando accade è certamente meglio per tutti, perché il processo di sviluppo prodotto è più rapido ed efficiente.

G.D.P.: Partecipate al Salone Satellite?

M.B.: Si, all’inizio fummo selezionati e partecipammo ad un paio di edizioni.

G.D.P.: Con cosa?

M.B.: Con due lampade, una era la Dandelion di cui parlavamo prima, poi un pouf galleggiante luminoso ed un modulo libreria. Lo abbiamo fatto per un paio di anni 2002 e 2003, un’esperienza molto interessante che ci ha permesso di avere i primi contatti.

G.D.P.: Quali i vostri riferimenti?

R.M.: Ray e Charles Eames, per la loro capacità di innovare un settore difficile come il mobile. Poi i grandi della storia del design italiano come Castiglioni per l’intelligenza inventiva molto forte, il segno minimo e l’ironia. Magistretti e altri grandi designer italiani per l’eleganza innata.

G.D.P.: E il passato remoto vi interessa e come?

M.B.: Assolutamente sì, visto che cambiamo spesso i settori di intervento ogni volta che facciamo un progetto facciamo uno studio storico dell’evoluzione tipologica del prodotto che dobbiamo disegnare. Rileggendo la storia, l’evoluzione dei prodotti a volte riusciamo ad individuare delle alternative possibili che non furono intraprese in un determinato periodo storico per limitazioni tecnologiche, materiche o di processo al contorno, così ci concentriamo su quelle alternative a volte possibili nella contemporaneità, così è nata l’idea della lavatrice a forza centripeta Pulse ispirato all'efficienza e alla poesia del lavaggio a mano nel quale tutti i sensi sono coinvolti: olfatto, udito, tatto.

G.D.P.: E per quanto riguarda la storia tout-court, come avete pensato alla vostra relazione con il passato e con Palazzo Terzi?

M.B.: Abbiamo pensato di avere una presenza discreta, inserendo in modo naturale i prodotti nelle intersezioni architettoniche. Volevamo fare in modo che i nostri prodotti non diventassero i personaggi assoluti ma che si scoprissero man mano durante il percorso anche se abbiamo scelto a volte oggetti importanti dal punto di vista dimensionale come il tavolo-pianoforte che mettiamo nella prima sala, dove c’è un pianoforte tradizionale.

G.D.P.: Come nasce e con chi questo tavolo-pianoforte?

R.M.: In occasione di una mostra organizzata da Lorenzo Palmeri, designer musicista e amico, quando fece un’iniziativa per la Yamaha. All’epoca stavamo studiando la possibilità di trasmettere suoni attraverso materiali non convenzionali, tant’è che ci riferimmo tecnicamente a quanto avviene nelle cabine degli aerei supersonici per la trasmissione del suono.

La superficie del tavolo è una lastra di vetro che diventa una cassa acustica, grazie a questa tecnologia.

G.D.P.: Un’eredità del Futurismo dal punto di vista artistico. Mentre come se la cava a livello di qualità del suono?

M.B.: Non può avere la pretesa di sostituire il pianoforte tradizionale per ampiezza dello spettro di frequenza. Per ora infatti non è un prodotto vero e proprio ma un’installazione.

G.D.P.: Avete dei sogni nel cassetto?

M.B.: Tanti, a uno teniamo molto, cercare di disegnare prodotti duraturi, che possano diventare delle icone e soprattutto possano cambiare in meglio l’esperienza delle persone.

G.D.P.: È per questo tentativo di esprimere “l’anima sensibile delle cose” che avete scelto di chiamarvi deepdesign?

R.M.: Volevamo un nome che parlasse di profondità, qualcosa che andasse al di là di una dimensione superficiale/visibile per quanto importante e legato al puro aspetto formale degli oggetti. Ciò che ci affascina del design è il potenziale multidisciplinare che può esprimere e che richiede ogni volta, a seconda dei concetti che si generano e sviluppano, uno sforzo di approfondimento della storia e della tecnica insita in ogni tipologia di prodotto. Semplificando, cercare di indagare, capire e gestire la complessità che sta oltre o sotto la superficie.

BIO

Matteo BAZZICALUPO (Parma) e Raffaella MANGIAROTTI (Genova) si laureano con lode in Architettura al Politecnico di Milano nel 1991.

Si conoscono nel 1995 alla redazione di “Modo”, rivista fondata da Alessandro Mendini. Dopo alcuni anni di esperienze condotte individualmente – Raffaella da Marco Zanuso e Francesco Trabucco, Matteo da Italo Jemmi – fondano lo studio deepdesign che in questi anni di attività ha sviluppato progetti di prodotto e scenari evolutivi in diversi ambiti: dal packaging alimentare all’elettronica di consumo, dall’arredo alla cosmesi.

www.deepdesign.it

PALAZZO TERZI

Palazzo Terzi, realizzato nel XVII secolo, è il più importante edificio barocco della parte alta di Bergamo. La sua storia, così come quella della città, è una storia stratificata, fatta di continui mutamenti. Proprio per questo motivo furono necessarie per la sua realizzazione due fasi edilizie e quasi un secolo di costruzioni, soluzioni tecniche, abbellimenti e rifiniture. L’edificio si presenta oggi con un ampio terrazzo e un colonnato antico nella parte esterna, mentre all’interno è caratterizzato da un susseguirsi di sale che si differenziano per forme e colori rendendo il palazzo un vero e proprio sfoggio di ricerca dell’eccellenza. Tra i personaggi illustri passati dalla dimora vanno menzionati i due imperatori austroungarici Francesco II e Ferdinando I, e lo scrittore tedesco Herman Hesse che scrisse di palazzo Terzi: "si scorgeva un cortile con piante e una lanterna, oltre il quale due grandi statue e un'elegante balaustra si stagliavano nitidi, in un'atmosfera trasognata, evocando, in quell'angolo stretto tra i muri, il presagio dell'infinita lontananza e vastità dell'aere sopra la pianura del Po".

Intervista a cura di Giacinto Di Pietrantonio | Testi a cura di Leone Belotti | Fotografie Opere, in ordine di apparizione: Dandelion © ph. Marlee Griffith; Cappa, 2014 Smeg © ph. Ezio Manciucca; Flexica, 2005 Imetec © ph. Ezio Manchiucca; I piccoli, 2014 Smeg © Marlee Griffith; Pulse, 2001 Whirpool © ph. Ezio Manciucca; Winds, 2007 Autoproduzione © Ezio Manciucca; Flat Piano, 2006 Autoproduzione © Ezio Manciucca | Editing di Roberta Facheris